CRISTINA, LA BOLLA CRISTALLINA

(fiaba dedicata a quanti amano la musica)

C’era una volta una minuscola bolla di sapone che se ne stava pigiata, insieme alle sue sorelle, nel contenitore colmo di acqua insaponata. Era stanca del buio e aveva una gran voglia di volare libera nel cielo, inseguita dagli sguardi esultanti dei bambini. Ma il tempo passava e nessuno si ricordava di lei. Avrebbe desiderato divenire d’un tratto grande e trasparente come una mongolfiera! Così avrebbe potuto portare a spasso tutti i sogni dell’infanzia, riflettere gioie e dolori del mondo, e intanto cogliere al volo le mille melodie che si levavano dalle finestre delle case, spalancate nell’aria tersa del mattino.

Cristina amava molto la musica e avrebbe dato chissà che cosa pur di sfiorare almeno una volta i tasti di un pianoforte o danzare lieve al ritmo armonioso dell’universo… Invece doveva accontentarsi di stare imprigionata in un piccolo cilindro di plastica, che non le offriva alcuna possibilità di movimento e nel quale si sentiva soffocare.

Un giorno intravide un tenue spiraglio luminoso. Una cannuccia s’insinuò perentoriamente nel cilindro, facendole il solletico, quindi aspirò la gocciolina a cui lei era impigliata.

Cristina sentì una violenta corrente d’aria pizzicarle il collo: era il soffio di una bimba che, senza tanti complimenti, la stava spingendo verso l’esterno. La bollicina si fece via via più grande, fino ad assumere le dimensioni, se non proprio di una mongolfiera, almeno di un palloncino. Poi si staccò pian piano dalla cannuccia, accompagnata dalle esclamazioni stupite di Miriam, la sua liberatrice, che rideva felice, mentre badava a non perdere di vista la creatura più riuscita che le fosse mai capitato di produrre. Per un certo tempo la piccola poté seguire la bolla con lo sguardo, ma poi questa le sfuggì all’improvviso, tanto che Miriam credette che si fosse infranta contro il ruvido muro del cortile.

Si rassegnò presto all’idea, come fanno quasi tutti i bambini alle prese con i loro piccoli dispiaceri, e cominciò a dedicarsi con pari impegno ad un altro dei suoi fragili, trasparenti capolavori.

Intanto la magnifica bolla vagava leggera nell’aria, rispecchiando alberi, nubi e farfalle. Finalmente si sentiva felice!

Viaggiò a lungo, sospinta dalla brezza primaverile, finché le si parò dinanzi un grande cancello, con le inferriate a forma di chiave di violino. Chiuse gli occhi, consapevole di essere sul punto di dissolversi.

Quando li aprì, anziché spiaccicata contro l’improvvisa barriera, si trovò in un luogo bellissimo, una specie di paradiso terrestre. Ma non era il paradiso delle bollicine, come credette in un primo tempo. Quello si trova, a quanto sostiene la pubblicità, in una bottiglia di bibita scura che a molti fa davvero l’effetto dell’acqua e sapone, a giudicare dal sapore!

Cristina, la bolla cristallina, non era morta, come aveva pensato in un primo tempo. Era viva e vegeta, tanto che si sentiva pizzicare dall’aria frizzante, mentre udiva in sottofondo una musica dolcissima, al ritmo della quale prese a

danzare come una libellula, riflettendo di volta in volta le note contenute nella melodia.

Dov’era capitata? Lo chiese ad un grazioso volatile che passava di lì, emettendo armoniosi cinguettii. Per tutta risposta, quell’essere dalla voce singolarmente melodiosa le rubò al volo un fa diesis col becco, quindi intonò con voce impostata: “Benvenuta a Musilandia, il paradiso delle note!”.

“Chi sei?”, domandò Cristina, indignata per aver perduto una nota così importante.

“Sono la Gazza Ladra, non lo vedi?”, ribatté quella ridendo. “Sono figlia di uno dei più grandi compositori d’opera, un certo Rossini. Lo hai mai sentito nominare?”.

“Certo”, replicò piccata la bolla, “non sono poi così ignorante, anche se al momento mi vedi con la testa per aria! Anzi è’ un musicista che amo particolarmente. Ma, dimmi, che genere di persone abita in questo strano paese?”.

“Non siamo persone”, la derise bonariamente la Gazza. “Sei approdata, mia cara, nel regno degli animali cui sono intitolate le più belle sinfonie di musica classica. Vedi, ad esempio quel meraviglioso uccello che vola ad ali spiegate nel cielo del tramonto?

E’ l’“Uccello di fuoco” di Stravinskj, forse il pennuto più ammirato del globo”.

Cristina era al settimo cielo: finalmente poteva contemplare da vicino i protagonisti delle sue sinfonie preferite!

“Chi è invece l’uccello equilibrista che se ne sta appeso a testa in giù, all’ingresso di quella grotta oscura?”, chiese con voce petulante.

Il presunto uccello, che pareva dormisse, si riscosse rabbrividendo e la squadrò indispettito dall’alto in basso: “A quanto vedo sei una creatura leggera, per non dire superficiale. Non sono un uccello! Appartengo alla specie dei chirotteri. Se lo vuoi sapere, hai l’onore di parlare con il Pipistrello di Strauss!”.

“Mi scusi, Sua Altezza”, sillabò confusa la bolla Cristina e mormorò tra sé:”Non ha tutti i torti: per leggera sono leggera, ma poteva anche evitare di spifferarmelo sul naso! Anche se, a ben considerare, non ho naso né protuberanze di sorta”, soggiunse la bolla ballerina, che si vantava della sua pelle liscia e trasparente.

“A parte tutto”, esclamò con impeto, “questo è davvero un bel paese!”.

Con la testa sempre più tra le nuvole per l’emozione, passò in rassegna la schiera di animali presenti in quel luogo magico, quasi un “giardino segreto”, situato al di là del cancello fantasma che aveva poco prima attraversato!

Ebbe così il piacere di conoscere la teoria dei Cigni, vaganti nel famoso “Lago” di Ciajcoskj, e il dispettoso lupacchiotto protagonista della fiaba musicale “Pierino e il lupo” di Prokofiev.

C’era poi tutto uno zoo singolare, in cui si esibivano, come in un circo, alcuni bizzarri personaggi, scaturiti dall’estro di Saint Saen, compositore francese divenuto celebre per il suo “Carnevale degli Animali”, qui rappresentati al gran completo.

Non mancava neppure, scortata da ben <44 Gatti>, in fila per sei col resto di due, come indicato in una nota canzoncina per bambini, di un cantautore genovese tuttora molto conosciuto. Non faceva parte del manipolo dei “sinfonici”, è vero, ma era pur sempre un classico, a suo modo…

Poiché la in questione, con la sua macchia nera sul muso, se ne stava in disparte, un po’ imbronciata, Cristina le si avvicinò per farle una carezza, ma la Gatta, selvatica come tutti i felini, le porse maldestramente la zampetta, graffiandole la pelle trasparente e delicata, di cui andava tanto fiera.

Così la bolla Cristina si dissolse in una lacrima, ma era una lacrima di gioia!

Può sembrare strano, ma, nell’atto di scomparire, si sentiva lieta di aver compiuto quel viaggio incantato e suggestivo.

La musica è fonte di gioia, anche se non dura all’infinito.

Fotografia di Barbara Queirolo

SUONI DELLA NATURA

La musica del vento

che scuote l’agrifoglio

con tenero lamento …

La musica dell’onda

che batte sullo scoglio

con forza furibonda …

Il passero intonato

che rende allegro il campo

il fresco bosco e il prato …

Il tuono alto nel cielo

che sempre segue il lampo

ed eccita il pensiero …

La grandine impetuosa

che frusta il bel nocciolo

e sbriciola la rosa …

Il suono della goccia

che bagna lieve il suolo

e scava anche la roccia …

… Suoni della Natura,

che allietano la mente

di ogni creatura,

meravigliosamente …

Norberto Mazzucchelli

Fotografia di Mary Picetti

TI HO CERCATO

Ti ho cercato

oltre le tempeste primordiali

degli oceani,

oltre il buio delle notti

senza luna,

oltre le nebbie ai confini

dell’immenso.

Non è stato vano il mio cercare

ma tu… sempre oltre rimani.

Silvana Fiani

Fotografia di Silvy Martino

COSA RESTA DI NOI

L’angoscia dà forma al dubbio, ormeggia labirinti

disvela amarezze che toccano la mia solitudine.

Ieri l’attesa odorava di pane, i tuoi baci commuovevano i muri

e i passi senza orario tracciavano la via al desiderio.

Cosa resta di noi?

Forse un segreto dove ti nascondo,

o questo sperpero di parole che continuano ad evocarti.

Dove sei?

La stanza ha sete del tuo corpo

fora una lacrima che gioca a fare il mare,

le mani inghiottono rimpianti, mi chiedono di te.

Fuori il sole imbavaglia una rondine, deforma il giorno

investe di luce un fiore.

Un clacson schiara di vita la via,

mescola insonnia e caffè, mentre tu sradichi le mie ossa

e indifferente torni a scorrermi sottopelle.

Sergio D’Angelo

Fotografia di Giulia Veratto

LA VOCE DEL FLAUTO

La voce del flauto

è dolce e sapiente

La nota più bassa

va in fondo ai pensieri

anche quelli esitanti

dei cuori senza slanci

Il re fermo e sicuro

nei duri imprevisti

dona una calma

accordi che rassicurano

Il sol rimane sospeso

vicino alla donna

che non può muoversi

e canta con voce convinta

Il la si commuove

vedendo la bambina

che abbraccia il fratello

rimasto inespresso

Il si oscilla e accompagna

l’uomo che fugge

e non sa da che parte

andare veramente

Le note più alte disorientano

con tono leggero

chi guarda dall’alto

uomini e storie

La voce dolce del flauto

non esclude nessuno

va oltre le parole

che non dicono nulla

Antonio Chiades

Fotografia di Alina Bertolone

LE ORECCHIE DEL CUORE E DELL’ANIMA

“C’è una porta nel mondo dei bambini da cui si intravede l’universo, un mondo immacolato fatto di generosità e sorprese. Non è facile trovare la chiave di questa apertura incantata, ma una volta avuta non si perde più. Basta un solo giro nella toppa ed ecco apparire come per magia tutto ciò che abbiamo sognato e desiderato, sia esso fatto di marzapane o di note”. Maestra Modestina.

Avevo 8 anni e avevo finito di frequentare la seconda elementare. Lei si chiamava Modestina e in quella prima lezione mi fece disegnare la mia mano seguendone i contorni e poi, sulla sagoma, scrisse i nomi delle note dei righi sulle dita, e i nomi delle note degli spazi tra un dito e l’altro. Io la guardavo stupito e incuriosito. Allora lei disse, lentamente e scandendo ogni sillaba: “Ec-co, ve-di? O-ra pos-sie-di il pen-ta-gram-ma mu-si-ca-le in u-na ma-no! Fan-ne bu-on u-so!”

Modestina divenne la mia maestra di musica. La vedevo ogni giorno e in ogni momento libero desideravo correre da lei.

Imparai prima la lettura rapida delle note e poi il solfeggio. In 6 mesi sapevo suonare il violino. Modestina diceva che ero un portento. Che per me era facile imparare. E per lei insegnarmi. Tutti quegli studi sulle 4 corde a volte erano noiosi, ma quando riuscivo a trovare l’intonazione giusta, il suono rotondo, la nota che per ore avevo cercato, l’accordo o la melodia provate a ripetizione… Allora esultavo e nessuna fatica mi era avversaria!

Nel giro di un anno suonavo Tartini e improvvisavo abbellimenti, cadenze e virtuosismi degni di un Paganini e quant’altro previsto nella storia del violino.

Quando compii 9 anni la maestra di musica mi regalò un violino nuovo, arrivato dai maestri liutai di Cremona direttamente per me, costruito sulle mie misure di bambino che ancora giocava con le macchinine, ma che aveva nella testa il Trillo del Diavolo e sognava il teatro della Scala di Milano, la Fenice di Venezia, e la Chiesa della Rotonda del suo paese. E lì si vedeva già col vestito scuro da concerto eseguire, in una platea gremita, i brani più ricercati. Mia madre mi regalò un piccolo cuscino

di velluto rosso che aveva confezionato con le sue mani e che si appoggiava alla mentoniera per alleviare la fatica dello studio.

Un giorno arrivò una notizia. Modestina, che aveva un’accademia di musica, era stata invitata a partecipare con le sue scuole di violino e pianoforte ad un concorso al teatro della provincia. Non credevo che la mia maestra avesse pensato a me ma ci speravo. Pensavo che la musica non dovesse rimanere dentro me, ma che dovesse uscire fuori, come fa la voce quando parliamo e vogliamo dire qualcosa. Come fanno le lacrime quando soffriamo, come fa il volto quando mostra un’espressione aldilà delle parole, come fa il sorriso quando illumina la faccia, come fa un neonato quando piange perché ha fame e vuole farlo capire. Io volevo mostrare la mia musica, quella che stava dentro me, volevo far sentire la mia musica e ciò che sentivo per lei e il mondo. E volevo che il mondo la sentisse, col cuore e con l’anima, oltre e prima che con le orecchie.

Arrivò la sera in cui dovevo esibirmi al concorso. Ero grato alla mia maestra di avermi regalato quell’occasione. L’emozione era palpabile nell’aria. C’erano tutti ad ascoltarmi. C’era anche il mio adorato papà. Solo che mi guardava da lassù. Ma si sa, l’acustica è migliore quando la musica si ascolta da lontano. E mio papà ne sapeva qualcosa, perché era stato un direttore d’orchestra, e io ero fiero di lui. Suonai accompagnato al pianoforte da Maddalena, una bambina di un anno più grande di me. Non arrivammo primi, ma secondi, e la gioia fu anche maggiore, perché c’era tempo per studiare ancora verso i migliori risultati e l’umiltà di lavorare con impegno. Tornammo a casa con le braccia colme di cioccolatini, emozioni, complimenti, baci e di una bella coppa con i nostri nomi: il mio, Enrico, e di Maddalena!

Anche stasera per me essere qui è una grande emozione. Stento ogni volta a riconoscere il mio nome sul frontespizio della brossure che ha impresso il programma del concerto coi brani più tradizionali per violino e pianoforte, come piaceva a mia madre, e che eseguiremo stasera nella chiesa della Rotonda per la vigilia di Natale. Come sempre c’è mia moglie Maddalena ad accompagnarmi al pianoforte. E come sempre mi aspetto di vedere lì seduta in prima fila la mia maestra di musica. Ma da

stavolta non ci sarà. E non ci sarà neanche per i prossimi concerti della stagione. Perché lei ha raggiunto quelle sale da concerto celesti, sempre illuminate, radiose, piene di armonia, dove potrà insegnare a tanti bambini che saranno per sempre bambini, come fece con me, la bellezza eterna e sorprendente, mai scontata della musica.

Tra una settimana io prenderò il suo posto all’Accademia di musica. Mi ha fatto l’onore di regalarmi la sua scuola.

Lei aveva compiuto il miracolo in me. Era entrata nel mio mondo di bambino. Aveva avuto l’intero setticlavio musicale. Ma la più importante chiave lei l’aveva trovata dentro di sé. La custodiva in sé. La conosceva come nessuno. Lei sapeva che non era facile insegnare la musica a me. Perché io ero un bambino speciale. Ero un bambino sordo. E oggi sono un violinista. Bravo e amato.

Anche lei lo era. Una violinista. Brava e amata. E una persona sorda come me.

Lei mi ha insegnato il vero valore della frase consumata sulla musica come linguaggio universale, oltre ogni barriera, le lingue e le distanze.

Perché per noi la sordità non era una barriera ma un legame.

L’unione, l’emblema dell’universalità.

Lei mi ha insegnato a conoscere e a sentire la musica con le orecchie del cuore e dell’anima.

Conservo ancora gelosamente nel mio cassetto personale quel piccolo cuscino di velluto rosso che confezionò per me e che mi regalò al mio nono compleanno.

Lei, Modestina, era mia madre.

Margherita Pizzeghello

Fotografia di Giovanna Picceri

INSIEME NELLA NEBBIA

(a un figlio adolescente)

Non è acqua che mi scivola addosso

ma il tuo silenzio ruvido e secco

come foglia accartocciata

in questa stagione inaccogliente,

restia a sbocciare, filo d’erba

che rifiuta di spaccare la terra

e di aprirsi al pallido sole della vita.

Le tue risposte sillabate

sono ogni volta schiaffo

al mio desiderio di scuoterti

aprendoti gli occhi

e di abbracciarti stretto,

come quando mi dicesti

“Mamma, restiamo sempre

insieme tu ed io”.

Non è più questo il tempo delle carezze,

ma non è ancora quello di vederti

andare solo

tra le strade impervie della vita,

non sono ancora pronti i piedi

per tracciare nuove vie

e le dita per aprire porte ignote.

E quando la foga del mio cuore

non comprende il tuo grido d’amore silente,

allora sono parole urlate oltre l’insulto

e lacrime a stento trattenute

tra continui rimorsi

e speranze altalenanti.

Poi ritorna la notte e mi ritrova con te

tra le braccia, il tuo respiro calmo,

il tuo capo appoggiato ai sogni.

Accarezzo senza svegliare il bambino

che ancora è dentro di te,

come tu ti aggrappi a quella madre

che ancora ami, forse di più

anche se così diversamente.

E’ questa la luce che il cuore fissa,

ostinatamente, mentre procediamo

insieme nella nebbia

verso il tuo diventare uomo.

Paola Meroni

Fotografia di Roberta Bova

LA MUSICA DELLA VITA

Nonna cantava tutti i giorni. Era un rito. Ci riuniva ai piedi del grande castagno all’ora della merenda, precisa e non sgarrava di un minuto, e ci raccontava la sua vita. La povertà, la paura e la guerra che nonna Lina aveva superato con l’arma del coraggio.

La sua storia terminava sempre con una musica, che faceva stare bene, e che lei intonava per addolcire la crudezza di quello che aveva passato e per rendere il racconto più distante dalla realtà.

La musica era la sua grande passione. Era il sogno rimasto sigillato nel cassetto. Senza avere la chiave per aprirlo. I soldi scarseggiavano: era difficile mettere assieme un pranzo e una cena e non si potevano sprecare energie e risorse per un passatempo.

” Impara il mestiere per aiutare la famiglia. Serve anche il tuo aiuto per andare avanti e ormai sei grande e puoi dare il tuo contributo”. Erano state le parole del padre, che a 8 anni, senza un preavviso, la lanciava nel mondo.  Il programma della giornata era completo: a scuola la mattina e il pomeriggio dalla sarta ad imparare a cucire.

In casa c’erano tre uomini, il padre e i due fratelli, e usare ago e filo era una necessità.

Diventò una brava sarta e anche mentre rammendava i pantaloni, cantava.

“Non rinunciare mai ai sogni. Anche se sono difficili da raggiungere,  arriva il momento in cui una luce ti preannuncia che si avverano ed illumina la strada che si dovrà percorrete per tagliare il traguardo “. Mi diceva nonna, quasi ogni giorno,  e accompagnava questa sua frase con il tocco lieve della mano sulla mia testa. Parole accompagnate ad una carezza, dolci come una melodia. Era diventato il nostro rito, che ci faceva felici.

Al castagno,  l’albero dei racconti di nonna,  passavo le estati con mio cugino.

Alla chiusura della scuola,  lasciavamo la cartella per prendere in tutta fretta un borsone con vestiti, giochi e libri. Ci aspettava la campagna. Ci attendevano le corse nel prato, il saluto ai nuovi animali ed i sentieri con i fiori che coloravano ovunque. Ci aspettava una piccola, grande cosa: la possibilità di emozionarci e di vivere col cuore che batteva ad ogni scoperta.

La campagna avvolgeva una casetta di legno,  protetta dal verde, dorata dal sole, che rendeva il mondo più fiabesco. Era la nostra dimora che ci accoglieva con un grande giardino, teatro dei nostri giochi e delle capriole del cane che ci seguiva e scodinzolava durante le nostre ” maratone” sotto gli occhi vivaci e attenti di nonna.

La nostra saggia ci guidava nei boschi e cantava. Partiva con una canzone che conoscevamo affinché la seguissimo con le parole.

Spesso, dopo il racconto della guerra e delle difficolta’ superate, mi chiedevo dove avesse trovato la forza ed il coraggio per andare avanti. E per vivere la vita, ogni giorno con la musica.

Erano domande che tenevo per me. Non so perché,  ma nonna leggeva nel pensiero.

“Sai perché canto?- mi diceva seduta sulla grossa pietra sotto il castagno,  mentre nel grembiule aveva una distesa di ciclamini-perché  la vita è  sempre bella e, anche se mette davanti al nostro cammino grossi macigni, si trova sempre il modo per continuare a camminare e non fermarsi.  È  la famiglia, la mia grande forza. La musica è  come se fosse un ringraziamento alla vita. È  un inno e la voglio celebrare”.

Alcuni giorni, invece, più seria, ci chiamava a raccolta prima del pranzo e ci insegnava come camminare sulla strada dell’esistenza.

” Nipotini miei siate sempre gentili e portate rispetto. Metteteci sempre un grazie in ogni cosa che vi viene data o che fate e in fondo alla frase attaccateci un sorriso.  Non ci sta male! Fatemi essere sempre orgogliosa di voi”.

Il tempo è volato con il suo manto nero,  ha nascosto le stelle e ha portato via nonna. Ci sono stati anni senza musica.

Sono tornata alla casetta di campagna. È  chiusa da molto tempo e ragnatele e polvere ne hanno fatto il loro regno. Apro la porta e mi sembra di sentire nonna che canta in salotto, sulla poltrona,  con il suo ago e filo, mentre cuce.

Le sue note fanno eco nelle stanze.

Mi soffermo sulla foto con la mia vecchia saggia al castagno. È  l’ultima traccia, l’ultima immagine che resta dell’albero caduto dal peso del tempo e degli inverni rigidi.

Quanto ho sognato all’ombra di quell’albero.  E quanti sogni ho portato avanti con una grande dose di coraggio.

Mi trovo a sorridere quasi dicessi:” Grazie nonna, non lo sai, ma ho imparato a cantare e a sentire la musica della vita”.

Gaia Simonetti

Fotografia di Erino Pagni

NEL BINARIO SEI VOLATA

A Beatrice Inguì¹

Quando cade la pioggia c’è un velo

di tormento nell’aria che offusca

immagini di campi beati e sorrisi

freschi, convinti che la vita sia bella.

L’acqua tinteggia di niente la pelle,

il ticchettio amplifica suoni cupi

-porte colpite e sputi d’intonaco-.

Nel binario sei scesa con sprezzo

satura d’offese, frecce di risa

e identità altra, che non ti veste.

Cali nel ferro e istanti tremendi

la tettoia che inganna, tenda di lutto.

Viscido e acuminato è il lemma

che fende e sventra l’essenza:

penetrando sottopelle, ha annegato

di rabbia i neuroni, trafitto i pensieri.

Sei scesa nel guizzo caparbio,

corpo già legato al niente;

l’impatto l’ha fatto multiplo;

nel puzzle non si sa mai come

anticipare l’inizio della forma

né ravvisare l’elemento di margine.

Odio a sfinimento è somma certa

agli artefici della banchina ultima.

Sei scesa non vista dal convoglio,

bronco d’acciaio che zigzaga

tra valli e ritorna al capoluogo.

Nel rito di sempre hai vidimato,

del paradiso l’accesso ti sia ampio!

La pioggia s’è sparsa: nei refoli lievi

tra l’aria sento il risucchio del ferro.

Lorenzo Spurio

1 La ragazza del torinese che nell’aprile del 2018 si buttò sotto un treno alla stazione di Porta Susa (Torino) a causa del profondo malessere derivatole da atti di bullismo.

Fotografia di Bruna Barletta

COME MUSICA GITANA

Vibrazioni ossessive

di vita

in un giorno scottato dal sole.

Respiro lentissimo di mare.

Sirena di terra e di acqua

con gambe che fanno

nuotare e camminare.

Libera da bracciali da schiava

e da scomodi sandali col tacco alto,

nuoto nell’acqua nuda

sotto lo sguardo

sfrontato e pudico della luna.

Stanotte ballerò musica gitana,

libera e sensuale danzerò,

con un sorriso proibito,

sarò terra che ruota attorno al suo sole.

Gravida di vita,

di anima e carne,

griderò il dolore muto

dell’assenza e della separazione,

e con gli occhi di donna

ti parlerò della mia preghiera d’amore.

Gloria Venturini

Fotografia di Patrizia Baciocco

LASCIA CHE SIA IL VENTO

Lascia che sia il vento dentro un respiro

a cogliere frammenti di giorni,

ritagli e sapori di silenzi

schiusi in cristalli d’attimi,

a inghiottire nell’azzurro

mantello di settembre

foglie sperse e ricordi

cosparsi di rugiada,

gelo di notti senza luna

e dimenticati accordi di stelle.

Lascia che sia il vento a dipingere

sorrisi ai confini del tempo,

incolti fiori d’istanti.

Sfiorano pensieri immobili luci,

tracce di nubi dissolte

fra vortici d’assetate ombre.

Fragili passi fra la sera e il cielo

…poi lascia che sia il vento…

Andrea Rossi

Fotografia di Titti Marchese

IL VIOLINISTA

Sporco il silenzio di suoni

e lo riempio di note.

Faccio musica

con il mio legno ricurvo appoggiato alla spalla.

E mentre suono

la nebbia gelata offusca le cose

e ricopre di bianco anche me.

Strade senza nome,

coriandoli ritrovati

nelle tasche di un vecchio cappotto,

e la gente passa,

mentre il tempo bastardo sgretola i sogni.

Crescono i cerchi e segnano gli anni.

Ma io non so fare altro.

E allora continuerò a suonare.

Piergiuseppe Gaido

Fotografia di Giuseppe Faenza

OCCHI

Gli sguardi dei bambini violati sono fatti di pane raffermo

assorbono sprezzo da secche radici

allentano il fango ad un volo di mosche

deformano al suolo anche i suoni più puri

Gli sguardi dei bambini violati guidano veglie notturne

spodestano grezzi armonie di collina

ne strappano forza e bontà ai de profundis

trasportano rabbia al mezzadro sconfitto

Gli sguardi dei bambini violati inseguono estati assolate

il caldo e la sete ne fermano il passo

voraci zanzare ne pungono il corpo

paludi e acquitrini ne infangano il cuore

Gli sguardi dei bambini violati assaggiano rive piangenti

raccolgono lacrime ai salici antichi

asciugano scavi dei fossi a confine

accarezzano vigne lasciate a morire

Gli sguardi dei bambini difesi sono fatti di pane.

Di pane sfornato.

Bruno Bianco

Fotografia di Byron Tsakarissianos

A MEZZA COSTA

Come colorati ventagli leggiadre farfalle

si inseguono con desideri d’amore.

Nel verde della siepe calici colorati

concedono voluttuose corolle.

Sul mirto odoroso il calabrone

dal lucido corpo

riflette bagliori di sole,

con le sue ali traccia

suoni profondi in armonie di note.

Ai pini degradanti sul mare

ruba profumi il vento.

Agavi e ginestre protendono abbracci

sulla costa scoscesa.

Il silenzio nella luce del sole risparmia parole.

Aldo Passaro

Fotografia di Roberto Cella

A BOCCE FERME

(A mio Padre che non è più fra noi)

Per tre anni mi hai tenuto compagnia

nei lunghi pomeriggi a casa mia.

Indugiavamo un poco dopo pranzo,

poi si usciva a braccetto malsicuri.

Rammenti, Padre, la villa vicina,

verde e antica?

Eppur quanta fatica

per conquistare la prima panchina!

Quella sosta ansimante preludeva

al rito quotidiano delle bocce.

Ci spostavamo al campo per carpire

la magìa delle sfere in movimento.

Un tempo tu eccellevi in questo gioco:

non eri un bocciatore, andavi a punto,

però come puntuali le tue mosse!

Correvi dietro alla boccia giocata

quasi a volerla guidare con amore,

come seguisti i figli ad ogni passo.

A casa il tè delle cinque ci aspettava:

mistico rito, aromatica chimera

da assaporare in tandem lentamente

con i biscotti al cioccolato fuso…

Te ne sei andato una sera all’improvviso:

è vero, avevi già compiuto ottantott’anni.

Ma in questi orfani mesi intensamente,

Padre, io ti ho pensato ed il ricordo

più forte, l’emozione, sai, più ricorrente

è, a bocce ferme, quei tè confidenziali.

Quello che più mi manca è una tazzina

sorseggiata con te nella cucina.

Rita Nello

Fotografia di Lucia Nocera

CRIÀ

Crià quande a muè o n’amigu

te lascian pe andàsene pe sempre.

Crià.

Crià quande sun sulu e marottu,

quande a miséia e-e guère nu finiscian mai.

Crià.

Crià vèrsu l’indifferensa

de chi ne stà d’ingiu.

Crià.

Crià anche se in gruppu ä gua

u ne pigge sensa raxiun aparente.

Crià.

Crià e cianze, cianze,

che nu l’è poi vergoegna.

Vittorio Biggi

Fotografia di Gianluca Zaio

IO M’INCHINO

M’inchino alla destrezza mentale

alle tue parole

ed ai tuoi occhi

che assaporano i miei frutti dolcissimi

e come un topo spaventato sopra al tetto,

mi lascio crescere le unghie

per grattare i dolori,

le lapidi

ed i sassi scagliati

e per poter raccontare

di trottole

di gabbiani, di angeli, di vita.

M’inchino alla mano

che ha scagliato i sassi,

che ha raccattato

stanchezza e lacrime,

ma m’inchino solo

per impugnare l’accetta

che la taglierà;

quella mano che lapida,

che impera

che deve soccombere.

Cristina Biasoli

Fotografia di Giovanni Lavezzo

LA SCATOLA

Guardai di nuovo il cielo,

come sempre era notte1,

chiuso da tutti quegli occhi2,

che, attenti, vigilano su di me.

Ma se i loro sono aperti,

i miei occhi sono chiusi.

Qualcosa doveva racchiuderli:

l’universo.

Ma chi raccoglieva la Scatola?

Una più grande contenuta in un’altra.

Di certo.

È più guardo fuori, più alto è il monte3.

Guardo in basso e sprofondo

nelle scatole più piccole4, ma consapevole del fondo

di là io sono partito

Ma continuo a cadere,

e mi rendo conto che non c’è una fine all’ inizio.

E mi sento vuoto5.

È un vortice che mi trascina verso un senso di inutilità,

ma mi sveglio e mentre apro gli occhi

mi accorgo che la Scatola li ha appena chiusi

Gianluca Scalera

Fotografia di Nicodemo Cordì

PER UN CAPRICCIO DEL CIELO

(a Fabrizio De André)

Quando sarò poeta di vita

potrò rileggere fino in fondo i tuoi occhi

che ascoltavano la neve, oltre le nuvole vedevano

rimando leggero, con un graffio di voce arrivando

allo spazio infinito del cielo;

potrò riscrivere meglio una carta ora scucita, stupita

e avvinghiare i vestiti di note che davi svestiti

e i colori impastati di viole imprecisi nella loro bellezza reale.

Non miopi, non servi, i tuoi compagni;

con loro mescevi idee, cuori, versi

e mappe nuove imbastivi

carruggi di sale, pane, petali e donne

che inebriano l’attimo nell’aroma cangiante del mare

tra il vino e i canali gli odori urgenti

di vite vissute o solo accennate, spezzate.

La fame di libri è bagliore sbrigliato che cresce di notte

bocca che innamora chi la lascia tardi

s’insinua nel plettro che sdipana orizzonti, ricovera i gatti,

ricorda un barbone, descrive uno zingaro e uccide un giornale.

Quanta storia di te cantastorie rimanda a carezze

e assenze scovate nel tempo di un’ora,

scolpisce ingiustizie su un foglio che ascolta

assorbe e ridona parole e armonia:

carrozze di treni da prendere lenti,

viaggi, fermenti, rami di fiori nei venti.

Oggi la terra è sapida di innumeri umori

pagina che scava nel senso rosso di amori.

Si rifà le trecce e aggiunge un sospiro al prossimo sole.

Senza la tua voce. Per un capriccio del cielo.

Giuseppe Mandia

Fotografia di Alessandro Terigi